Editoriale

Cambiamento o continuità. Non è un dilemma per la sinistra. (2013)

Si è aperta dietro le quinte, ma alimentata con veemenza dagli opinionisti della informazione, una discussione sull’operato di Bersani. Si dichiarano, e si etichettano, giornalisti, ma lungi dall’avvicinarsi a forme dialettiche vicine alla missione-mestiere scelta, trasudano ripugnanza all’idea di una informazione libera dai condizionamenti di parte o dalle proprie opinioni. Bersani è colpevole di ardire la coniugazione tra responsabilità e cambiamento, ricetta dura da accettare in un paese intriso dai poteri forti delle corporazioni, di non essersi fatto da parte, nonostante il successo delle avventure delle primarie, di non avere un programma chiaro, seppure, lo stesso, era stato posto nel vivo della discussione di quei tre milioni (naturalmente beoti o appartenenti all’apparato) di persone recatisi ai seggi, di non avere saputo vendere promesse elettorali, come si compete ad un politico che non deve essere chiamato alla serietà, ma alla vendita del fumo agli elettori-pollo. A tutte le altre mancanze, solertemente indicate dagli esperti del poi, io mi sento di toglierne una, con una premessa sul contingente. Io continuo a credere che il contenuto e lo schieramento, scelto da Bersani, fosse la strada migliore possibile nelle condizioni date. La sconfitta non nasce dalla debolezza del Progetto, ma dall’appesantimento della zavorra che si portava dietro. Se i risultati fossero stati quelli previsti a pochi giorni dalle elezioni, vale a dire un trend pari al 33-34% , la situazione sarebbe sempre stata difficile, ma si poteva garantire da un lato un minimo di governabilità e dall’altro si sarebbe potuto dare un impulso positivo al lungo percorso di costruzione di un soggetto politico appartenente al Socialismo Europeo, una declinazione contenuta nell’idea moderna del ruolo dell’Europa unitamente ai suoi continui riferimenti alle espressioni socialiste presenti in Europa. Bersani, come si percepiva nei suoi innumerevoli interventi, aveva comunque un compito difficilissimo di fronte e nessuno avrebbe potuto far di meglio e comunque andranno le cose in me ci sarà sempre un ricordo positivo. Parlavo della zavorra che si porta appresso il centrosinistra: una visione della politica obliqua, ridotta a manovra slegata da un progetto forte, nella quale nuota una politica intesa come “autonomia del politico”  in uno spazio separato dai fermenti sociali. Al contrario, in questi giorni, nella durezza della fase politica torna alla ribalta un pensiero forte, barbaramente abbandonato, come se la scomparsa del PSI ne avesse anche distrutte le radici, le idee e le elaborazioni espresse dalle grandi figure del socialismo italiano del dopoguerra. Mi riferisco ai principi ispiratori posti alla base del primo centrosinistra che realizzò il più forte processo riformatore mai tentato nell’Italia repubblicana, dal 1963 al 1970, osteggiato ottusamente dai settori più conservatori della sinistra e da vasti settori dello stesso Psi. In termini culturali quella elaborazione era una sintesi della evoluzione del marxismo  antidogmatico, del socialismo libertario di Rosselli, della migliore tradizione del socialismo padano (presente in Santi)  e  della attenzione verso la sinistra sociale cattolica (Lombardi e Santi soprattutto), vissuti nella acquisizione dei contributi della economia postkeynesiana. Ma sono proprio i limiti del dibattito in corso, sulla mancata vittoria e sulla necessità di un governo delle larghe intese, questa’ultima perseguita, dai cosiddetti rinnovatori renziani, veltroniani e dalemiani, senza nessuna considerazione dei limiti populistici e sovversivi della destra italiotta, che ridanno vigore a coloro che pensano di restituire questo paese alla normalità  tipica delle democrazie occidentali più avanzate. Tra la scelta dell’operare senza cambiare ed il tornare a riflettere sulla riforme di struttura, sulla democrazia economica e sui temi del cambiamento, non ci sono dubbi. Si fanno sempre più pressanti le indicazioni a riguardare con maggiore approfondimento alla elaborazione di Riccardo Lombardi su una “società diversamente ricca” che, parte dal 1967 per dispiegarsi nell’ultimo Congresso del PSI, svoltosi all’EUR a Roma, alla critica dell’idea dello sviluppo illimitato delle forze produttive e dell’esigenza di passare gradualmente da una idea di crescita puramente quantitativa ad una idea qualitativa dello sviluppo come connotato del socialismo democratico del futuro. Del resto proprio la necessità di riconnettere il riformismo con un progetto di trasformazione sociale e di quest’ultimo con una idea di socialismo della libertà e della dignità umana rende attualissimo quel messaggio. Un ultimo elemento, vitale nello scontro politico odierno, di quella impostazione è la  visione profondamente etica della politica. Lombardi diceva che la vera questione morale è la coerenza tra il dire e fare, e quando si rendeva conto che non tutto ciò che si dice è poi realizzabile pienamente,  rispondeva: l’importante è impegnarsi seriamente nella direzione scelta pur scontando inevitabili compromessi. Niente a che vedere con la visione più recentemente espressa da un politico attualissimo che ha scomodato Gramsci per magnificare la giustezza e l’intelligenza del compromesso, negata dai deboli di pensiero, per esercitare una idea politica ridotta a pura manovra e puro propagandismo. Da questo punto di vista l’idea della coerenza richiamata, è meglio espressa e raccolta dall’atteggiamento serio e corretto di Bersani, che ha esplicitata la necessità della conclusione degli errori storici contenuti nei ripetuti fallimenti della sinistra della II Repubblica. In conclusione, per un socialista gradualista e riformista, come il sottoscritto sostenere Bersani, in questa fase difficile e complessa, vuol dire rilanciare un’idea di riformismo strutturato, ed aderente alla grande cultura socialdemocratica europeo. Per questi motivi il richiamo a passate elaborazioni della storia socialista è essenziale per costruire questo  nuovo paradigma.

GIOVEDÌ 4 APRILE 2013