Editoriale

La “debolezza” di oggi si combatte utilizzando le esperienze “storiche”.

Una situazione, semi ridicola, fatta di dichiarazioni ed anatemi, riesce ad illuminare la discussione politica italiana, contrassegnandone tutti i limiti. Il fiorire di opinioni “negative” sul movimento 5Stelle e sul loro definirsi “progressisti”, quasi a volere contrabilanciare, e giustificare, le perplessità, che hanno accompagnato l’iniziativa pre elettorale del PD nelle sue oscillazioni quotidiane, inizialmente orientate dallo sventolamento della fantomatica “agenda Draghi”.  Una discussione che ti aiuta a capire perché la  sinistra italiana, pur avendo governato in nome e per conto, della cosiddetta “governabilità”, non è mai stata destinataria di una affermazione convincente, pur avendo avute splendide occasioni negli ultimi anni. Dopo la ennesima cura di governabilità, con la partecipazione al governo Montiil PD ottiene la “non vittoria di Bersani”, nel 2013 con la coalizione “Italia-Bene Comune”. Una vittoria poco altisonante che,  se non avesse trovata due ostilità nel crescente movimento 5Stelle e nel Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano propenso più ad un governo di Unità Nazionale, sarebbe stata la penultima occasione. L’ultima occasione si è presentata con la costituzione del Governo Conte in Italia, dopo il fallimento del patto Lega 5Stelle, che doveva rappresentare il “laboratorio” per la realizzazione di un progetto di rinnovamento, di alleanza programmatica e di uno schieramento  vincente da candidare, anche successivamente per il governo del paese. Ma tutto ciò non è avvenuto, formalmente per la avversione del “renzianesimo”, dedito a mettere sotto quel governo dalle pericolose tendenze “progressiste”, addirittura intenzionato ad agire con libertà e “trasparenza” sulla gestione delle risorse del PNRR, ma concretamente per i manifesti interessi dei ceti “prenditoriali” italiani disabituati a gestire relazioni “normali” con la politica. Il mix successivo, composto dalla aggressività montata a tutela degli interessi delle società finanziarie e di imprenditori, proprietari dei media, che è stato in grado di schierare una “canea” ostile a Conte. Una proporzione di opinioni talmente “ostili” e pesanti fino al punto di determinare le premesse, e le giustificaioni,  che hanno condotto fino alla vittoria di una destra destra.  Se non ci soffermiamo a chiederci il perché delle scelte fatte, quelle che hanno portato alla formazione del governo Draghi, ovviamente poco conveniente per la sinistra italiana, visto che diventava Presidente, un uomo prestigioso a livello internazionale, riconosciuto per la sua “leadership” liberista. Troppo facile intuire che l’ispiratore delle politiche del debito, tutte da intestare allo Stato, quindi ai cittadini, ma gestite dal sistema bancario e dai gruppi finanziari in grado di realizzare utili da reinvestire, solo dopo la “vittoria” della sua teoria della crescita prioritaria del PIL, senza dare risposte preventive alle crisi occupazionali o di reddito delle persone. Nella teoria “draghiana” questo era un problema da affrontare dopo,com ci ha confermato con il suo atteggiamento “contrario” al Reddito di Cittadinanza (RdC) ed alla misura del Superbonus 110. Non erano parte del suo programma, anzi non rispondevano ai criteri enunciati, sul cosiddetto “debito buono”. Nessuno potrà mai convincerci che il “Banchiere”, quanto si esprimeva sulla qualità del RdC, non sapesse che le sue considerazioni, alcune giuste sulla funzionalità, avevano avuto tempo a disposizione per essere corrette, in particolare sul capitolo della funzionalità dei Centri per l’Impiego, che seppure finanziati per le loro attività e per il reclutamento di personale “Navigator” , sono stati boicottati dalle regioni di centro destra, che non hanno mai proceduto all’utilizzo dei finanziamenti. Ma se queste sono considerazioni ragionevoli c’è da chiedersi perché durante il dibattito sulla fiducia, il PD non ha dichiarato il suo punto di vista sul RdC diverso da quello espresso da Draghi durante il confronto sulla fiducia al governo ? Per noi dare una risposta a questo tema non è dificile visto che il PD, non ha più da tempo l’attrezzatura culturale per dare peso e significato ai cosiddetti “punti di conflitto”. La povertà, ad esempio, ne è uno. Sono pesati gli anni di indifferenza sul Jobs Act , la benda usata per non guardare i guasti prodotti nel mondo del lavoro e dei diritti  dei lavoratori, che sono l’esempio più significativo dell’atteggiamento assunto sui “conflitti sociali”. La polemica in corso, sul Congresso del PD, sulle sue eventuali modalità di svolgimento non trova soluzione, se un nuovo gruppo dirigente non fa mente locale sulle  esperienze accumulate nel cassetta degli attrezzi del fare sinistra. La lezione è che una sinistra legata alla strada del riformismo, non deve mai dimenticare che il suo agire nel vivo della società non può svincolarsi dalla strategia delle “riforme di struttura” e, quindi, il suo essere al governo non può prescindere dagli obiettivi del  necessario “permanente” rinnovamento della società, anche affrontando il groviglio delle posizioni nel sistema politico. Una delle riforme più profonde del sistema sociale e democratico che ha influenzato tutti noi arrivò il  20 Maggio del 1970 con l’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori la legge n. 300. Indubbiamente essa rappresentava una vera e propria svolta nell’ambito delle relazioni industriali e dei rapporti di lavoro. Una legge  figlia della cosiddetta spinta dell’autunno caldo del 1969, ma anche conclusione di un processo politico-culturale che prendeva ispirazione dal progetto lanciato durante il Congresso di Napoli della CGIL, del novembre 1952, da  G. Di Vittorio.  Eppure, questo non bastò per garantire che la sinistra si presentasse unita all’appuntamento, nonostante venissero superati gli articoli 39 e 40 della Costituzione (rispettivamente la libertà di organizzazione sindacale e il diritto di sciopero) che non erano stati mai applicati, sostituiti, come erano dal codice civile, con i soli contratti collettivi, a disciplinare i rapporti di lavoro. Un esempio di scuola. Perché?  Il punto è che il PCI, all’epoca, non sostenne quella legge, però, pur non essendo tutta la sinistra unita, vigeva comunque un sistema di relazioni politiche e di cultura scientifica, in grado di dialogare con le spinte, e le mobilitazioni, che partiti e sindacati riuscivano a realizzare attraverso la partecipazione democratica di ceti e pezzi importanti dei portatori di interesse presenti nella società.  Una stagione dove le parole come “riformista” o “riforme di struttura” avevano un senso perché il riferimento era il “fermento sociale” e non l’assecondare delle necessità liberiste, come successivamente è avvenuto, ad esempio, con il Jobs Act, una contro riforma che ha riguardato l’intera sinistra italiana. Dopo di che è stato facile fare tutti i passi successivi per imporre un sistema elettorale, in gradi di tutelare la “casta” politica. Infatti con procedure “forzate” dagli stessi governi diretti ai massimi livelli (Renzi e Gentiloni ad esempio) dalla sinistra, per dotarsi di un sistema elettorale “immorale” , ma chiaro nella sua impostazione. Pezzi importanti del gruppo dirigente della sinistra non riesce a superare le ataviche difficoltà, quelle legate a complessi di superiorità cultura e di tentazioni egemoniche. La sinistra, da sempre, non tollera la “diversità” che è non solo non rispettata, ma nemmeno tanto facilmente “digerita”. L’esempio ultimo è la mistica sciorinata dai dirigenti PD sulla esperienza di Conte 1 Presidente, di Conte 2 Presidente, del Conte leader di 5 Stelle, sulla sua coerenza   e sulla sua pretesa di definirsi progressista. Una mistica che sa di antico e fa parte dei dettami culturali della “casta” di sinistra che, come dice Fassina, non si accontenta del fatto che è di sinistra chi fa cose di sinistra. Sorge sempre l’antico dilemma, che non riguarda come dare risposte tese a sospingere processi di trasformazioni epocali, utili per chi rappresenti,ma come ” frantumare” le buone relazioni a sinistra. Questa è la memoria da coltivare, superando quella che si è manifestata all’indomani del superamento della cosiddetta I^ Repubblica,  per riproporre la relazione tra il “conflitto sociale“ e le riforma di struttura. Le vicende che hanno portato alla scomparsa dell’area socialista, non possono fare scomparire quel crogiolo del “dubbio” e della cultura di governo riformista, progressista e gradualista, per affermare a sinistra formazioni consistenti dei post-democristiani e post-comunisti, prima separatamente e poi insieme, che hanno coltivato ben altro. Oggi si apre un portato storico ricco di tante esperienze che però si manifesta oggi con una nuova “configurazione” fatta dal PD, Movimento 5Stelle e formazioni minori. La scelta di non metterli insieme, voluta dal PD, alle elezioni ultime ci hanno consegnata una sconfitta, in virtù della vittoria della Destra-Destra, molto mal digerita per mancanza di lotta vera. Meglio dire che Movimento 5Stelle, dato per disperso, ha dato il meglio di se stesso con un risultato inatteso solo dai più distratti. Un risultato sospinto da scelte “incomprensibili”, unito a dilettantismo politico, da parte del PD che ha lavorato per il proprio insuccesso, sospingendo parte del suo elettorato verso il voto a 5Stelle caratterizzato da un Programma così chiaro e netto da occupare uno spazio nell’orientamento progressista e di sinistra. Ma questo risultato negativo, per il PD, proprio come un’onda di ritorno, attesa ed immancabile, nel momento in cui deve mostrare il meglio di se stesso o l’intenzione di avere  voglia di riaprire il “rubinetto” delle relazioni con tutto l’elettorato, titolare delle sue azioni di rappresentanza, al momento congelate per dissenso nei confronti delle scelte politiche non condivise, non deve mostarre solo il peggio di quello che può dare. Tutto in linea con la cultura introdotta dall’esistenza dell’attuale sistema elettorale che, con l’offerta delle sue innumerevoli contorsioni, mette a nudo la perseveranza di un recondito pensiero in grado di accomunare le leadership attuali e di quelle che si candidano a sostituirle, senza nemmeno lo sforzo di spiegare perché. Il tutto in continuità con quel kit degli attrezzi in possesso del dirigente tipo del PD, solo utile a perseguire il mantenimento di una politica, divenuta insopportabile. Questo fiorire di candidature a sostituire Letta, non si pronunciano con dichiarazioni polemiche, o distanza sulle scelte collettivamente fatte, ma vengono avanzate con l’intenzione di preservare sé stessi e tutto l’entourage degli yesman a loro aggregati, Non pervengono segnali di rinuncia a quei comportamenti, vissuti collettivamente, ma offrono solo l’impressione di un cambiamento possibile, senza dire quale, in virtù delle qualità taumaturgiche della loro affermazione individuale. eppure bisogna continuare a credere  che il contenuto e lo schieramento, sia la strada migliore possibile nelle condizioni date. In conclusione la prima operazione verità è abbandonare la forte pulsione verso l’idea della possibile nuova era di governo “riformista” sotto la tutela del liberismo rigenerato. Una zavorra che nasce con l’incertezza dell’analisi politica sulla “globalizzazione” destinata ad apportare un benessere diffuso, non strumenti ed operatività, mai dimostrate: una visione della politica obliqua, ridotta a manovra slegata da un progetto forte, nella quale nuota una politica intesa come “autonomia del politico” in uno spazio separato dai fermenti sociali. Al contrario, in questi giorni, nella durezza della fase politica torna alla ribalta un pensiero forte, barbaramente abbandonato, come se fossero state abbandonate le radici, le idee e le elaborazioni espresse dalle grandi figure del progresso e del socialismo italiano del dopoguerra. Tornano a galla i principi ispiratori posti alla base in termini culturali alla evoluzione del marxismo antidogmatico, del socialismo libertario di Rosselli, della migliore tradizione del socialismo padano e meridionale e della attenzione verso la sinistra sociale cattolica (Lombardi e Santi soprattutto), vissuti nella acquisizione dei contributi della economia postkeynesiana. Superare i limiti del dibattito in corso, sulla mancata vittoria, per tornare alla cultura della necessità dell’area vasta per tornare a riflettere sulle riforme di struttura, sulla democrazia economica e sui temi del cambiamento. Il pragmatismo odierno non consente lo spazio necessario ad approfondimenti su elaborazioni teoriche come quelle di Riccardo Lombardi su una “società diversamente ricca” che, parte dal 1967 per dispiegarsi, alla critica dell’idea dello sviluppo illimitato delle forze produttive e dell’esigenza di passare gradualmente da una idea di crescita puramente quantitativa ad una idea qualitativa dello sviluppo come connotato del socialismo democratico del futuro. Del resto, proprio la necessità di riconnettere il riformismo con un progetto di trasformazione sociale e di quest’ultimo con una idea di socialismo della libertà e della dignità umana rende attualissimo quel messaggio. Un ultimo elemento, vitale nello scontro politico odierno, di quella impostazione è la visione profondamente etica della politica. Lombardi diceva che la vera questione morale è la coerenza tra il dire e fare, e quando si rendeva conto che non tutto ciò che si dice è poi realizzabile pienamente, rispondeva: l’importante è impegnarsi seriamente nella direzione scelta pur scontando inevitabili compromessi. Niente a che vedere con la visione più recentemente espressa da un politico attualissimo che ha scomodato Gramsci per magnificare la giustezza e l’intelligenza del compromesso, negata dai deboli di pensiero, per esercitare una idea politica ridotta a pura manovra e puro propagandismo. In conclusione, per una visione  socialista gradualista e riformista, sostenere il duro lavoro che sta facendo Conte, per concretizzare un’area progressista e plurale, proprio in questa fase difficile e complessa. Tutto ciò  vuol dire rilanciare un’idea di riformismo strutturato, aderente alla grande cultura socialdemocratica europeo. Per questi motivi il richiamo a passate elaborazioni della storia socialista è essenziale, per costruire questo nuovo paradigma. È necessario passare dagli organigrammi alla progettualità collettiva. Così si può realizzare un protagonista politico radicato e rappresentativo.