Autonomia DifferenziataEditoriale

L’Autonomia Differenziata è la garanzia per ripetere la storia diseguale.

Si propone questa  descrizione dei primi esercizi storici di esperienze di Autonomia Differenziata (AD) con modalità e nomi diversi, ma efficaci per “garantirsi” il sottosviluppo meridionale, e quindi del paese. In altre parti di questo scritto il lettore potrà trovare sprazzi di descrizione del lavorio che, ceti imprenditoriali e borghesi delle regioni ricche, misero in campo, appena dopo l’Unità di Italia, con tenace contrarietà ad una idea di sviluppo armonico e a tutela della difesa del loro egoismo territoriale.  Quindi, a questa stessa categoria di produzione culturale,  come vedremo di antico retaggio storico, appartiene il meccanismo “diabolico”, messo a suo tempo in atto, all’indomani della riforma di Fderalismo Fiscale, dal Governo Berlusconi e congegnato dal Ministro Calderoli, con la Spesa Storica. Uno scippo di risorse trasmigrate verso il Nord del paese, a sfavore del Sud ed Isole. Non ha avuto particolare fortuna il tentativo, effettuato dal governo Conte 2, di ripristino dell’equilibrio nella distribuzione delle risorse fisali del paese attraverso i Fondi Europei e la applicazione della cosiddetta clausola del 34%. Era un punto essenziale per dare uno stop al giochino dei Fondi Europei sostitutivi delle risorse ordinarie, pari al 34% che spettano ai residenti del Mezzogiorno: Oggi siamo al punto di partenza visto che nel  2023, attraverso il Governo Meloni, assistiamo, con sostegno “unanime” del Governo, al ripetersi di  un tentativo di  spostamento di risorse verso i già “ricchi”, per niente tranquillizzante. Non lo è anche perché, nella vulgata politica attuale, per sostenere la tesi dell’AD, si usano gli stessi argomenti di sempre, con linguaggio moderno e rinnovato. Fina dai tempi antichi, secondo le tesi di alcuni studiosi, il diverso tasso di sviluppo, origine dell’attuale divario economico tra Nord e Sud, era originato dalla diversa esperienza comunale medievale. La maggiore incisività del sistema istituzionale nord avrebbe aiutato le “genti”  a sviluppare un maggiore competitività civica, con mercati e amministrazioni più funzionali, mentre il Meridione pagava il peso ed il ruolo di potere delle élite conservatrici ed arretrate latifondiste. A queste conclusioni, ad esempio, giunge il nostro conterraneo abruzzese Emanuele Felice, del tutto corroborato dalle tesi sul feudalesimo più marcato descritte da Antonio Gramsci. Considerazioni del tutto importanti, che vengono accompagnate dalle considerazioni sulla esistenza di una situazione di partenza sfavorevole, dovuta alla maggiore arretratezza tecnologica del Regno delle Due Sicilie rispetto agli altri stati preunitari. Un giudizio storico non chiarissimo perché gli stessi storici documentano alcune attività predatorie nei confronti delle “eccellenze” meridionali. Una attività questa che ha accentuato  l’impoverimento economico e culturale del mezzogiorno. È utile però che a questa lettura  se ne aggiungano altre diverse provenienti da  diversi altri storici che hanno avanzate tesi diverse e che mostrano come la correlazione tra il civismo di oggi e l’inclusività delle istituzioni politiche medievali svanisce se si considera il civismo passato. Ci riferiamo a storici del calibro di Giovanni Federico, Carlo Ciccarella, Stefano Fenoaltea  e Paolo Malanima sostenitori, dati alla mano,  che i due blocchi centro Nord e Meridione Isole, erano  sottosviluppati allo stesso modo, perché già nel 1861 (anno dell’unità d’Italia) quanto viene effettuato il primo censimento della popolazione si scopre che i residenti ufficiali erano 22.176.477. Un punto di debolezza per il “possesso” di una economia forte. Infatti emergeva una Italia indebolita dalla sua inconsistenza di risorse umane in grado di trasformarsi in tempi ragionevoli in capitale sia reale che infrastrutturale. Erano necessari processi lunghi diversi da quelli messi in movimento all’epoca dalle scelte di politica economia e fiscale che non potevano dare di certo soluzioni diverse dai divari concretizzatisi in termini di PIL. Per la verità le politiche economiche dei primi governi postunitari sono quelle che hanno operato all’esatto contrario, di una visione di sviluppo “eguale” del sistema paese, scegliendo la concentrazione di risorse a favore delle regioni più ricche. A sostegno sono giunti gli  approfondimenti, anche statistici, effettuati da uno studioso inglese, lo storico Christofer Duggan, il quale affascinato dalle conseguenze create in Europa dall’affacciarsi della giovane Italia, nello scenario internazionale, tradusse il suo interesse in una constatazione che svelò il  condizionamento che subiva il processo economico italiano a causa della predominanza politica  dell’élite settentrionale. Infatti lo studioso sostenne la sua intuizione con una chiara descrizione statistica e con numeri che confermavano che circa l’85 %  dei presidenti del consiglio e di tutti i prefetti, e il 60 per cento dei vertici amministrativi era di origine settentrionale. A questa considerazione statistica, quindi della predominanza delle élite settentrionali, venne opposta una giustificazione dovuta  dalla necessità di sostenere e privilegiare i territori di confine militarmente più rilevanti strategicamente, rispetto alle regioni più distanti. Una giustificazione “patriottarda”, forzata e non veritiera, visto che già nel 1887 una “micidiale” riforma protezionista entrò in campo senza nemmeno guardare alla tutela dell’arboricoltura meridionale che la fece schiacciare dal declino dei prezzi internazionali degli anni Ottanta. Una ecatombe economica per gli Abruzzi e Molise. Mentre nessuna risposta venne data sul perché, fiorenti industrie tessili e meccaniche del Meridione, vennero abbandonate, o trasferite al Nord, sotto la spinta del sostegno dato dalle “laute” commesse statali verso le imprese del Nord. Le bonifiche agrarie, l’assegnazione del monopolio del conio alla piemontese Banca Nazionale, l’affidamento dei monopoli nella costruzione e operazione di navi a vapore alle aziende genovesi e, soprattutto, la spesa pubblica nella rete ferroviaria che raggiunse il 53 per cento del totale tra il 1861 e il 1911. Risorse, per sostenere la politica degli investimenti pubblici provenienti dalle imposte sulla proprietà fondiaria altamente squilibrate, tutte sfavorevoli al Sud e Isole. Così fu con la riforma fiscale del 1864 “ideato” per spostare risorse a sostegno dello sviluppo del Nord, che prevedeva un “contingente” di 125 milioni da raccogliere, per il 40 per cento dall’ex Regno delle Due Sicilie. Uno squilibrio enorme, che nei decenni successivi, vide la crescita di un fiorente settore manifatturiero affermarsi nel Settentrione, e la crescita con le 150 mila vittime del brigantaggio e dell’emigrazione di massa di inizio Novecento. Da questa lettura, compresa la dinamica istituzionale che ha caratterizzato l’inizio della nostra storia unitaria si può dunque trarre una lezione utile ancora oggi: politiche economiche che favoriscono solo una parte del paese possono avere un impatto drammatico e duraturo sulle scelte del resto della nazione.Il rapporto Svimez, pubblicato appena due mesi fa racconta che:«Nell’ultimo ventennio, la politica economica nazionale ha disinvestito dal Mezzogiorno, ha svilito anziché valorizzare le sue interdipendenze con il Centro-Nord. Il progressivo disimpegno della leva nazionale delle politiche di riequilibrio territoriale ha prodotto conseguenze negative per l’intero Paese». E’ triste riportare alla memoria un Corriere del 1972 che pubblicava la previsione del professor Pasquale Saraceno, espressa dentro un rapporto per l’allora Ministero del Bilancio. In conclusione è accaduto l’esatto contrario.